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Intervista a Shata Diallo, founder e presidente di YOBBO

4 aprile 2024
Intervista a Shata Diallo, founder e presidente di YOBBO

Nata in una famiglia interculturale il suo nome può essere tradotto come Aisha (in arabo) o Speranza (in italiano). Si occupa di inclusione in diversi ambiti:

  • Organizzativo: è Principal e Inclusion Lead in Mida, dove guida il team di D&I
  • Accademico: dopo aver completato gli studi tra Italia e Paesi Bassi, sta conseguendo un dottorato in psicologia del lavoro e delle organizzazioni con attenzione ai processi di inclusione in azienda
  • Associativo: dal 2015 è founder e presidente di YOBBO – Youth Beyond Borders, associazione culturale che sviluppa progetti giovanili orientati alla promozione dell’imprenditorialità, dell’inclusione e della cittadinanza attiva per il programma Erasmus+.
  • Divulgativo: è TEDx Speaker e contributor per Alley Oop – l’altra metà del Sole, il blog de Il Sole 24 Ore dedicato alla diversità e l’inclusione
  • Istituzionale: è parte della sottocommissione “Diritto all’Integrazione Sociale e Economica” dell’Intergruppo Parlamentare sui diritti fondamentali della persona

Figlia di una donna cristiana cattolica e di un papà ivoriano e musulmano, sei nata all'insegna dell'unione di due mondi appartenenti a culture totalmente diverse l'una dall'altra. Che cosa ti ha fatto capire questo episodio della tua vita? Com'è possibile valorizzare la diversità al giorno d'oggi?

Sono cresciuta in una famiglia fortemente multiculturale e devo alla mia storia una parte importantissima di consapevolezza sulle dinamiche di valorizzazione delle differenze e di inclusione.
Intanto, interfacciarsi con la differenza è l’unico vero modo per perimetrare sé stessi e la propria cultura. Mi dico sempre che è impossibile rendersi conto della propria cultura finchè non si entra in contatto con una cultura diversa.
Quello che racconto con orgoglio è che tra i miei non ha funzionato. Si sono separati quando ancora ero molto piccola. Per me è stato importante perché mi ha dato consapevolezza che la diversità è complessa, faticosa. Richiede sforzi e rinunce. E credo che sia qualcosa che ci raccontiamo davvero poco, anche in azienda. E non è solo la mia storia a dirci che la diversità è complessa, ma il mondo accademico riporta da decenni le criticità legate alle dinamiche di inclusione: a partire dai bias e le resistenze individuali fino ai meccanismi di funzionamento organizzativo, come processi e politiche.
La D&I in azienda (e non solo) è spesso idealizzata, ma per valorizzarla davvero bisogna mettersi sempre nella condizione di non perdere di vista la complessità.
Ad esempio, se voglio inserire in azienda più donne, non posso dimenticarmi che questa scelta strategica avrà un impatto sul percepito degli uomini (che si sentiranno esclusi), sulle donne (che potrebbero vivere la nuova politica come la prova tangibile di non essere abbastanza), sui manager (che dovranno adattare i criteri di valutazione) e sui processi organizzativi.
Oltre al fatto che le ricerche ci confermano che inserire la diversità non è sufficiente per generare valore positivo in azienda, bisogna mettersi nella condizione di includere davvero. E un conto è misurare il numero di donne inserite, un altro è assicurarsi che queste donne abbiano realmente la possibilità di partecipare attivamente alla vita organizzativa, impattare sulle decisioni e così via.
Quindi, come valorizzare la diversità in azienda? Non idealizzandola, perché oltre che un valore è un meccanismo di funzionamento e una competenza. Non concentrandosi solo sulle % di diversità, ma focalizzandosi sull’inclusione. Misurando impatti e risultati. Garantendo coerenza sistemica con l’organizzazione.

Avete condotto una ricerca sul Metaverso & Wellbeing sul lavoro, in collaborazione con il dipartimento di Psicologia Cognitiva (DISCO) dell’Università di Trento. Come il Metaverso e la Realtà virtuale possono influenzare le dinamiche di un'organizzazione?

Da qualche anno in Mida cerchiamo non solo di essere al passo con le novità riguardo a questi temi, ma anche di partecipare alla ricerca, in modo da portare nuova conoscenza a livello organizzativo. Lo studio sul Metaverso è stato implementato dal nostro team che si occupa di wellbeing organizzativo. In particolar modo da Gregorio Macchi, un ex studente dell’università di Trento che ora lavora qui in Mida. È durato quasi un anno e ha coinvolto un’azienda cliente. L’obiettivo è stato quello di svolgere un progetto che garantisse sia rigore scientifico che ricerca applicata, per poi pubblicare i risultati su una rivista scientifica.
I risultati sono promettenti: la realtà virtuale ha in suoi pro e i suoi contro, ma può generare interessanti benefici nelle dinamiche di collaborazione.

Il Metaverso e la realtà virtuale rappresentano una possibile evoluzione nelle dinamiche organizzative. Il metaverso è di fatto un ambiente digitale a cui le persone accedono attraverso degli avatar (che non per forza rappresentano fedelmente la persona). Immaginiamo applicazioni come la formazione, il team building e il marketing, solo per citarne alcuni. Grandi multinazionali ci credono. Ad esempio Nike ha creato ambienti digitali per interazioni prodotto-cliente, mentre Havas Group ha progettato spazi virtuali per il brainstorming e la collaborazione, promuovendo creatività e innovazione tra i dipendenti.
L’idea di poter fare un passo avanti rispetto alle classiche forme di collaborazione virtuale ci dà l’occasione di esplorare nuove possibilità. Un ambiente nuovo porta con sé delle incognite, nuove modalità e dinamiche di interazioni.
Un punto che io sento fondamentale in questa riflessione riguarda la valorizzazione delle differenze. Il rischio dell’identità virtuale è quello di perdere contatto con la complessità della realtà e delle persone. Ma le grandi aziende ci credono e per questo vogliamo continuare a impegnarci e portare valore (pratico e di ricerca) sul tema.

Sei scrittrice di una Rubrica del Sole 24 ore chiamato Alley Oop, responsabile Diversity & Inclusion della società di consulenza MIDA SB Spa, fondatrice di un'associazione per giovani che promuove la diversità chiamata YOBBO - Youth Beyond Borders e sei volontaria in Tanzania. Venendo a contatto con diverse realtà hai una panoramica più vasta dello scenario attuale. Come viene vissuta la diversità dalle organizzazioni? Come possono stare all'interno di un cambiamento culturale così complesso?

Nel 2023 è molto raro incontrare un’organizzazione che non abbia già pensato di intraprendere un percorso sulla diversità e l’inclusione. Anche nel contesto italiano. Parliamo però di grandi aziende o multinazionali, molto poco ancora accade per quanto riguarda le PMI. E questo credo sia un punto di attenzione importante, considerato che il nostro paese è composto per la maggioranza da PMI.
È stato un processo di consapevolezza e trasformazione velocissimo. Ad esempio pochi anni fa l’attenzione verso il tema era più bassa e meno strategica.
Oggi i board aziendali vedono nella D&I un vantaggio competitivo: in termini brand reputation, di talent attraction e retention. E non solo, molte aziende hanno compreso che comunicare il proprio impegno non è sufficiente: gli scivoloni sono a portata di mano e talenti e consumatori chiedono trasparenza e coerenza tra ciò che si comunica, il modo con cui vengono gestite le persone e il business dell’azienda.
Secondo me, oggi per guidare un cambiamento culturale sul tema non possono mancare tre ingredienti:
- Competenza: la D&I non è solo un tema di attualità ma è prima di tutto una competenza. E per farla accadere come si deve servono strumenti, capacità, professionalità molto specifiche.
- Metriche: la D&I va misurata. Ed è fondamentale dedicare tempo alla definizione di indicatori di impatto specifici che non misurino solo la diversità, ma anche il livello di inclusione.
- Sistematicità: cosa se ne fa un’organizzazione, ad esempio, di un corso di formazione sulla leadership inclusiva se non esistono processi strutturati e inclusivi di performance management o di feedback? Cosa se ne fa un’organizzazione di una formazione sui bias per i/le recruiter se poi tra i criteri di selezione è richiesto un fit culturale e valoriale (che quindi non facilita l’accesso alla diversità)? Meglio fare poche cose, ma senza perdere mai di vista la sistematicità dei livelli organizzativi.

Tag tematici: Interviste e Editoriali She SPS Italia

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